Contributo di Walter Francesco Torchia

Questo è il contributo che ci è pervenuto da Walter Francesco Torchia, scrittore, Firenze

 

Ci sono dei luoghi simbolo nel mondo, legati alla storia, alla cultura. Prendiamo il teatro di Dioniso ad Atene. Lì vennero rappresentati i lavori di Eschilo, Euripide, ecc. Era il luogo catartico – secondo l’interpretazione aristotelica – della città. Perché, sempre secondo Aristotele, l’uomo era l’animale sociale per eccellenza, più ancora delle api o delle formiche, legate da meccanismi istintivi, mentre l’uomo ha il potere di scegliere. E gli ateniesi del V e IV secolo prima di Cristo sceglievano di lasciarsi toccare alla magia del teatro. In effetti gli ateniesi di quell’epoca straordinaria avevano scelto anche la democrazia, avevano accolto le interpretazioni del mondo offerte da quegli strani individui che si definivano amanti della conoscenza (φιλέϊν σοφιά, ovvero filosofi), avevano scoperto i legami tra la matematica e i fenomeni fisici: insomma erano decisamente un gran bel popolo! Non per niente continuiamo a ripetere che la civiltà occidentale discende da loro.
Ma ora pensate a cosa avrebbe detto uno di questi cittadini se si fosse sparsa la notizia che gli amministratori della città avevano intenzione di vendere il teatro a un mercante fenicio che ci avrebbe esposto le sue belle produzioni di stoffe. Due minuti dopo sarebbe arrivato imbafulito all’agorà, trovandoci già mezza città riunita: perché sulla testa dei liberi cittadini greci non si poteva decidere proprio niente. E siccome erano fondamentalmente democratici (l’avevano inventata loro la democrazia! come s’è già ricordato), avrebbero ascoltato le ragioni degli amministratori (oberati dai debiti pregressi della città), quelle dei contraddittori (perché almeno un contraddittore si trova sempre, ma nelle dittature – comunque siano camuffate – non è concesso loro di esprimere la propria opinione), dopo di che avrebbero votato. E secondo voi quali sassi sarebbero stati in maggioranza: quelli neri della vendita o quelli bianchi della conservazione del teatro per il suo uso solito?
Nel nostro triste presente, invece, i cittadini non hanno più voce in capitolo: votano una volta per tutto un quinquennio, qualunque problema si presenti durante i cinque anni in questione. I cittadini ateniesi del V e IV secolo sarebbero rimasti a dir poco sconcertati, loro che almeno una bella votazione al mese non se la lasciavano sfuggire. Mentre tutto quel che ci è lecito – e possibile – fare se alcuni amministratori decidono di vendere spazi di aggregazione pubblica, è creare gruppi di pressione affinché la cosa non vada in porto. E in genere l’azione risulta vincente solo se i politici ritengono di ottenerne un vantaggio per le successive elezioni, lasciando del tutto in sott’ordine la questione del valore in sé dell’impresa. O tempora o mores! Esclamerebbe un ciceroniano doc. Ma questo è il tempo e la situazione che ci meritiamo dopo che per decenni esimi amministratori statali hanno lasciato che la vita culturale della nazione si avviasse verso un lento e inesorabile sfacelo. Che sarà in mai, allora, in questi tempi così cupi perdere anche la Stazione Leopolda? Che sarà mai non usufruire di uno spazio per mostre di artisti contemporanei, per l’allestimento di spettacoli di danza e teatro, performances musicali, eccetera? Davvero è necessario erogare ancora ossigeno ai patiti della Cultura? D’altronde sono quasi sparite del tutto le librerie da questa città (e dall’intera nazione): sarà un segno che la cultura non paga, che l’italiano medio non legge, che preferisce un reality sulle escandescenze di cuochi, maghi, canterini e compagnia bella ad una qualunque sinfonia di Mozart o di Sibelius, un romanzo di Pasolini o un quadro di Magritte!
Fra una decina d’anni ci accorgeremo che alla lunga vendere borse e panini farciti non paga, che trasformare le più prestigiose vie delle città italiane in una successione di aristocratiche boutique non sarà stata la scelta più indovinata della nostra storia – e sì che di scelte sbagliate ne abbiamo tante alle spalle. Pensare che essere i più grandi sarti del mondo o i più grandi cucinieri – ammesso che lo siamo – sia sufficiente per tirare avanti il carro economico della nazione è come sfidare una motocicletta con un triciclo. Il mondo evolve in fretta e l’evoluzione degli ultimi 4 secoli (da quando Galilei & company hanno dato il via alla rivoluzione scientifica – guarda un po’ un italiano al vertice di un cambiamento epocale!) è sempre stato sotto il segno dello studio, della ricerca – non dell’impasto delle frittelle, per quanto importanti esse siano. D’altronde la disoccupazione giovanile che sfiora il 50% è un indice alquanto emblematico dell’inconsistenza dell’attuale modello economico e non è certo un caso se si trovano unicamente lavori di basso livello: non è il fosco destino dei nostri tempi, è semplicemente la conseguenza delle scelte governative dei decenni passati, i tagli all’istruzione, alla ricerca, alla promozione, sotto qualunque forma, della cultura.
Vendiamo la Stazione Leopolda ai mercanti fenici del nostri tempo: loro ci guadagneranno di sicuro! Noi non possiamo nemmeno votare per dire che non ci sta bene.

Walter Francesco Torchia